STORIA DEL DEFIBRILLATORE

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Un primo prototipo di defibrillatore venne realizzato dal chirurgo statunitense Claude S. Beck, nel 1974 presso l’Università di Cleveland; salvò la vita ad un quattordicenne colpito da fibrillazione ventricolare durante un intervento chirurgico. Era un’apparecchiatura pesante e difficile da trasportare, alimentata da corrente alternata ed era necessario l’utilizzo di un trasformatore al fine di alimentare la tensione fino a 1000 volt. Gli elettrodi venivano applicati direttamente sui ventricoli e da allora il suo utilizzo divenne indispensabile nelle sale operatorie di tutto il mondo.

Nel 1952, il dottor Zoll con un team di medici di Boston, osservarono che la defibrillazione potesse essere efficace anche senza apertura del torace; applicarono perciò gli elettrodi esterni sul torace di due pazienti in arresto cardiaco riuscendo a rianimarli. Il primo morì dopo soli 20 minuti mentre il secondo sopravvisse per 11 mesi, dopo avere ricevuto una stimolazione cardiaca elettrica per 52 ore consecutive.  

Nel 1960, i primi dispositivi a corrente alternata, vennero sostituiti da quelli a corrente continua. Quest’ultimi, causando meno complicazioni, apparirono da subito più efficaci. Nel 1965 Frank Pantridge, professore nordirlandese, inventò il primo defibrillatore portatile, usufruiva di un dispositivo alimentato dalla batteria di un’automobile e  venne installato a bordo di un’ambulanza e venne utilizzato per la prima volta nel 1966.

Sino agli anni ’70 del ‘900 l’apparecchiatura era manuale e l’operatore, tramite l’utilizzo dell’oscilloscopio (strumento di misura elettronico che consente di visualizzare, su un grafico bidimensionale, l'andamento nel dominio del tempo dei segnali elettrici ed effettuare misure a lettura diretta di tensione e periodo) doveva determinare lo stato del paziente e impostare lo shock.

Nel decennio seguente, furono inventati defibrillatori dotati di un programma in grado di operare in autonomia e istruire l’operatore grazie a sistemi di sintesi di vocale.

Vennero successivamente introdotti i primi modelli di defibrillatori impiantabili, avevano un peso medio di circa 300 grammi ed avevano le dimensioni di una radiolina tascabile e venivano inseriti in una tasca della pelle addominale. Nel caso di necessaria fibrillazione, esso era in grado di dare una scarica fino a 34 Joule. Chiaramente con il progresso tecnologico anche questi apparecchi sono stati migliorati.

Ma il primo dispositivo che può essere paragonato ai nostri attuali DAE, risale al 1899. Quando grazie ai fisiologi Provost e Batelli dell’Università di Ginevra, scoprirono grazie alle loro ricerche in merito alla fibrillazione ventricolare, la  possibilità di indurre aritmia cardiaca somministrando degli impulsi elettrici direttamente sulla superficie cardiaca nei cani da laboratorio. Fu una scoperta di una certa rilevanza, ma a causa dell’utilizzo di voltaggi molto elevati, il cuore dei cani non poteva più ritornare alla normale attività che avrebbe permesso loro di sopravvivere.

Inizialmente, questo portò alla demonizzazione del defibrillatore. Le successive ricerche infatti finirono con il concentrarsi sui lati e gli aspetti negativi della fibrillazione anziché su tutti quelli positivi che conosciamo oggi che sono dei veri salvavita.

Oltre ai defibrillatori manuali, esistono dei defibrillatori semiautomatici che permettono a personale non medico di praticare defibrillazione.

Le possibilità di salvare una persona in caso di arresto cardio-respiratorio senza conseguenze al cervello calano del 10% al passare di ogni minuto. E’ fondamentale effettuare massaggio cardiaco con ventilazione bocca-bocca, bocca-naso o respirazione tramite pallone dotato di mascherina, al fine di mantenere un costante e sufficiente afflusso di sangue al cervello. Dopo 4 minuti di assenza di ossigeno al cervello si va incontro a danni cerebrali il più delle volte irreversibili, dai 6 minuti in poi oltre ai danni irreversibili al cervello c’è il rischio di incappare in  deficit motori, del linguaggio o che possano influire sullo stato di coscienza della persona, un esempio ne sono le vittime in stato vegetativo.

La defibrillazione non va mai effettuata nel caso in cui ci si trovi vicino ad abbondante presenza di acqua o se la vittima risulti bagnata. Il corpo bagnato provoca la dispersione delle scariche elettriche, andando ad influire negativamente sull’effetto che dovrebbero avere sul cuore. In casi del genere la vittima andrebbe trasportata, chiaramente se non la si esponga ad un ulteriore pericolo, in luoghi asciutti; se necessario la vittima andrebbe spogliata ed asciugata il meglio possibile.

Il massimo dell’energia necessaria è di circa 360 Joule, negli adulti; solitamente maggiore sarà l’energia più efficace risulterà la scarica di defibrillazione. Nei bambini che abbiano meno di 8 anni e un peso inferiore ai 35 kg vengono utilizzate piastre a limitazione energetica al fine di evitare che la scarica lesioni il cuore.

Attualmente, i defibrillatori sono così semplici da utilizzare che il posizionamento in scuole, stadi, aeroporti, e in molti altri luoghi pubblici sarà reso obbligatorio. I dispositivi portatili sono disponili a costi che ne permettano l’acquisto anche ai privati cittadini che vogliano tenerlo in casa. I moderni DAE pesano poco più di un chilogrammo e funzionano in maniera quasi del tutto automatica.

  

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